A undici anni, seppi che dovevo andare a scuola
sola. Questa notizia mi colmò di
sconforto: ma non dissi parola, e nascosi la mia desolazione in un
sorriso largo e falso,
perché, da qualche tempo, avevo preso l’abitudine di
tacere e sorridere quando sentivo in
me dei sentimenti che mi sembravano vili.
5 →
Io non ero mai uscita sola; e non ero mai andata a scuola, avendo
fatto le elementari in
casa. Venivano maestre a farmi lezione: maestre che mia madre spesso
cambiava, perché
ero addormentata, e lei sperava sempre di trovarne una che mi svegliasse.
L’ultima era una
giovane signorina con un cappello di feltro; usava dire, quando io
dopo lunghe esitazioni le
rispondevo giusto, «Te deum», e lo diceva così
in fretta, che io sentivo «tedem» e a lungo
10→ non
riuscii a capire cos’era questo «tedem» bisbigliato
fra i denti. Comunque grazie alla
maestra Tedem fui promossa agli esami di licenza elementare.
Mia madre m’informò che ora m’aveva iscritto «al
ginasio»: pronunciava questa parola
con una enne sola. Il ginasio era il luogo dove avevo fatto gli esami:
e siccome era vicinissimo
a casa, dovevo andarci da sola, e da sola tornare, perché dovevo
smettere di essere quello
15→
che ero, e cioè un «impiastro».
Io ero «un impiastro» per varie ragioni. Non sapevo vestirmi
da sola, né allacciarmi le
scarpe; non sapevo rifarmi il letto né accendere il gas; non
sapevo lavorare a maglia, benché
più volte mi fossero stati messi in mano dei ferri da calza;
ero inoltre assai disordinata e
lasciavo la mia roba in giro, come se avessi avuto, diceva mia madre,
«venti servitori»; quando
20→
c’erano invece bambine che alla mia età facevano il bucato,
stiravano e cucinavano intieri
pranzi.
Pensai che non avrei smesso di essere «un impiastro» andando
a scuola sola. Ormai ero
un impiastro per sempre. Avevo sentito mio padre dichiarare che ero
un impiastro per
sempre: e che la colpa non era mia, ma di mia madre, che m’aveva
tirato su male e m’aveva
25→
viziato. Anch’io pensai che la colpa era di mia madre e non
mia: ma questo non mi consolava
del fatto che non ero come quelle bambine svelte e invidiabili, che
stiravano e
rammendavano lenzuola, maneggiavano sapone e denari, aprivano e chiudevano
con la
chiave la porta di casa e salivano sole sui tram. Da loro mi separavano
distanze sconfinate e
senza rimedio. Non c’era, del resto, nulla in cui io fossi dotata:
non ero sportiva, non ero
30→
studiosa, non ero nulla: e ad un tratto questo, che sapevo da tempo
avendolo sentito
ripetere più volte in casa, mi sembrò una grande disgrazia.
Mio padre però non voleva che uscissi sola. A scuola mi doveva
accompagnare la donna di
servizio, che tanto, come lui diceva sempre, «non aveva mai
niente da fare». «Guai a te se la
mandi a scuola sola», aveva urlato a mia madre; e mia madre
gli aveva assicurato che
35→
m’avrebbe sempre accompagnato la donna. Mentiva; e io me ne
accorsi. Sapevo che a mio
padre si dicevano, ogni tanto, delle bugie: era necessario, perché
lui aveva, come ripeteva
sempre mia madre, «un gran brutto carattere», e le bugie
servivano a dare a noi tutti un
po’ di respiro, a difenderci dai suoi molteplici comandi e divieti.
Io però mi ero accorta che le
bugie dei miei fratelli a mio padre avevano qualche probabilità
di durata; ma le bugie che gli
40→
diceva mia madre, nascevano malate d’un’intima gracilità,
e si estinguevano nello spazio
d’un giorno. Quanto a me, non dicevo bugie a mio padre semplicemente
perché non avevo il
coraggio di rivolgergli mai la parola: avevo di lui una sacra paura.
Se accadeva che mi
chiedesse qualcosa, gli rispondevo a voce tanto bassa, che lui non
capiva e urlava che non
aveva capito: mia madre gli diceva allora cos’avevo detto, e
le mie parole, nella voce di mia
45→ madre,
mi sembravano una miseria; facevo un sorriso largo e stupido: il sorriso
che s’apriva
sulla mia faccia, quando sentivo tremare in me la paura e la vergogna
d’aver paura.
Ero persuasa che mio padre avrebbe presto scoperto che a scuola non
mi accompagnava
nessuno: la sua collera usava abbattersi sulle bugie di mia madre
con la furia d’una bufera: e
io odiavo d’essere all’origine d’una lite fra i
miei genitori: era la cosa che odiavo e temevo di
50→
più al mondo.
Pensai che la mia vita passata, quando non andavo a scuola, era stata
assai dolce. Era
certo la vita d’un impiastro: ma come l’amavo nella memoria.
Mi alzavo tardi, e facevo bagni
lunghi e caldissimi: disubbidendo a mio padre, che esigeva e credeva
che io facessi il bagno
freddo in ogni stagione. Poi mangiavo a lungo frutta e pane; e con
un pezzo di pane mi
55→
mettevo a leggere, stando carponi sul pavimento. Mi dicevo a volte
che fra le grandi
sventure che potevano colpirmi, una era che mio padre decidesse di
non lavorare più nel suo
istituto, dove passava le giornate vestito d’un camice grigio;
ma portasse invece la sua roba a
casa, il camice, il microscopio e i vetrini su cui studiava; e allora
tutte le cose che io facevo al
mattino mi sarebbero state proibite, dai bagni caldi al pane mangiato
leggendo e per terra.
60→
Non ero studiosa. Mio padre ai miei studi non s’interessava,
avendo, come spesso
dichiarava, «altro da pensare»; lo preoccupavano invece
gli studi d’un mio fratello, maggiore
di me di qualche anno, «che non aveva voglia di far niente»,
cosa che a lui faceva «perdere il
lume degli occhi». Mia madre lo informava ogni tanto che io
«non capivo l’aritmetica», ma
questa notizia non sembrava scuoterlo. Usava però tuonare in
generale contro «la
65→ poltroneria»;
e le mie mattinate erano pura poltroneria, e io lo sapevo e lo pensavo,
mangiando pane e leggendo romanzi con un vago senso di colpa e con
profondo piacere.
Quando arrivava la maestra, mi tiravo su con le ginocchia formicolanti
e la testa confusa;
sedevo con lei al tavolo, e le offrivo i miei compiti monchi e sbagliati.
S’arrabbiava e mi
sgridava, ma io non avevo paura: essendo avvezza alle collere di mio
padre, le sgridate della
70→
maestra Tedem erano per me un tubare di colomba. Fissavo il suo cappello
di feltro, le sue
perle, il suo foulard di seta; nessun soffio di paura saliva a me
dal suo chignon puntato con
forcine di tartaruga, dalla borsa che aveva posato sul tavolo e che
assomigliava alla borsa di
mia madre. Il terrore aveva per me i tratti di mio padre: la sua fronte
aggrottata, le sue
lentiggini, le sue lunghe guance rugose e scavate, le sue sopracciglia
arruffate e ricciute, la
75→ sua
torva spazzola rossa.
Quando andai a scuola, di colpo la mia vita cambiò. Avevo imparato
da poco a leggere
l’ora: non avendo mai avuto bisogno, in passato, di sapere che
ora fosse. Adesso, quando mi
alzavo, guardavo l’ora centomila volte, un poco sulla sveglia
che avevo sul comodino, e un
poco sul grande orologio che stava sull’angolo della strada,
proprio dirimpetto alla mia
80→
finestra. Quei due orologi, io li odiavo. La mia vita s’era
riempita a poco a poco di cose che
odiavo. Al mio risveglio, con immensa tristezza tiravo su l’avvolgibile
e gettavo uno sguardo
sulla strada che m’aspettava, ancora buia, deserta, con l’orologio
illuminato da un fioco
lampione. Dovevo andare a scuola da sola; così aveva deciso
mia madre. Avrei potuto
rivelarlo a mio padre; ma una simile idea la scartavo subito con spavento.
Sarebbero
85→
scoppiate bufere, nelle quali anch’io sarei stata travolta.
La bugia di mia madre, sulla donna
di servizio che m’accompagnava, stranamente resisteva: era una
delle sue rare bugie dotate
di forza vitale.
(Tratto da: Natalia Ginzburg, Mai
devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970) |