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Durante la
malattia della mamma fui esiliato presso i parenti della periferia
che avevano
preso in affitto da poco tempo un appartamento delle case statali.
Era una delle prime
costruzioni del genere, ideata avanti guerra e portata a termine
nei primi due anni di essa:
due grandi caseggiati divisi da un cortile d’ingresso, di fronte
al quale era posto il
(riga 5) lavatoio comune; dirimpetto alle abitazioni, v’era una
fila di piccoli orti, separati l’un
l’altro da una rete metallica, e di spettanza dei singoli inquilini.
Orti ben curati, come si
conveniva, per una tacita gara che i coltivatori dilettanti avevano
indetto fra di loro.
Coltivavano pomodori insalate zucchini, e un angolo era riservato
ai fiori. Nell’orto dello
zio fiorivano in autunno alcuni crisantemi gialli. Era una comunità
di un centinaio di
(riga 10) famiglie. L’appartamento dello zio si trovava all’ultimo
piano dell’estrema ala destra:
una terrazza sugli orti, le finestre del salotto sul Mugnone,
mentre le camere davano sulla
strada, ancora acciottolata e deserta di case, sul lato opposto.
All’orizzonte si vedeva di
tanto in tanto passare l’unico tram che raggiungeva la zona, rasente
il Mattatoio. Di
fianco a quest’ultimo, un sottopassaggio. Ogni casa ospitava dei
bambini, ed io li
(riga 15) raggiungevo nel viale degli orti e sulla strada. Era
ancora guerra nel mondo, e ciascuno di
noi aveva un uomo alla guerra che in casa ci additavano sulle
fotografie perché
imparassimo a volergli bene. Ebbi costì i miei primi amici che
si chiamarono Mario,
Renzo, Vanda, Corinna e Gualtiero. Un altro che fu molto intimo
con noi in quel tempo
si chiamava Giulio, ed era un bambino bruno ed esilissimo, credo
di otto anni allora, che
(riga 20) un giorno non scese sulla strada e negli orti: lo vedemmo
circa un mese dopo sulle
braccia della sua mamma, serrato dentro un’armatura tutta bianca,
col collo eretto e il
ciuffo nero dei capelli sulla fronte. Non so come ci scordammo
di lui. Vanda e Corinna
venivano con noi ragazzi disertando la compagnia delle bambine
e trasgredendo alle
raccomandazioni materne. Io sposai Vanda una mattina: era vestita
di un grembiulino
(riga 25) rosso a pallini bianchi e un grande fiocco celeste a
farfalla sulla zazzera bruna;
mettemmo casa in una buca del terreno sulla strada e con stoviglie
e posateria di stagno
comperate in un bazar mangiammo molto spesso fili d’erba per pastasciutta
e sassi
bianchi come polpette, pane autentico e autentica frutta che portavamo
da casa. […] Ma
le donne rimanevano spesso sole, noi quattro ragazzi facevamo
irruzione sugli argini del
(riga 30) Mugnone in corse sfrenate verso qualcosa di preciso
e di irraggiungibile. Le sere
d’estate, con lo zio e le cugine, indugiavamo sul torrente guadabile
senza paura,
acchiappavo le lucciole che occhieggiavano a centinaia come in
una festa, le cacciavo
dentro un fazzoletto e appena a casa le imprigionavo sotto un
bicchiere capovolto, sul
comodino. La mattina dopo, secondo la leggenda, accanto ai loro
poveri corpi spenti
(riga 35) scoprivo alcune monete. Per acchiapparle correvamo loro
incontro a mani tese, cantando:
Lucciola lucciola vien da me
ti darò il pan del re,
il pan del re della regina
lucciola lucciola fiorentina…
(riga 40) e serravamo la mano su una stilla di luce che allora
allora s’era accesa nell’aria.
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*
Vasco Pratolini, Via de’ Magazzini, Vallecchi, Firenze, 1942.
Romanzo breve, inserito in Diario sentimentale, Vallecchi, Firenze,
1956. |
Chi è
il protagonista ?
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