A1
Come abbiamo
fatto a restare amici così a lungo. Che poi non so se siamo stati
amici per davvero, o meglio non so se due ragazzi che si vedono
ogni estate in
una piccola città di mare, e lì stanno insieme, sempre insieme
per due mesi, e poi
in inverno non si vedono e non si sentono, possono definirsi amici.
Oh certo, non
(riga 5) facevamo altro che definirci amici quando qualcuno ci
chiedeva di noi, amici per
la pelle, da sei anni, poi sette, otto, nove anni, poi “da quando
eravamo piccoli
così”. Gli altri ci guardavano ammirati mentre ci ascoltavano
ricordare gli anni e
il tempo passato insieme, e provavano quel po’ di impotenza che
si ha di fronte a
due ragazzi legati da chissà quale specialità determinata dal
tempo, e si capisce
(riga 10) subito che non si potrà mai diventare uno di loro, che
il tempo per diventare uno
di loro è passato, bisognava incontrarli prima, “quando si era
piccoli così”.
Ecco, quando parlavamo agli altri degli anni passati insieme,
io sentivo che
eravamo amici. Non lo sentivo mai quando eravamo noi due soli,
perché
eravamo diversi da come ci raccontavamo; eravamo diversi, vivevamo
in due
(riga 15) città diverse per il resto dell’anno, ognuno di noi
aveva una vita sconosciuta e
solida da qualche altra parte, e poi arrivavamo un giorno su quel
lungomare e per
due mesi eravamo lì, in una pausa che segnava la scansione tra
un anno e l’altro.
E forse anche per questo pensavo che non eravamo amici, perché
questa non era
la nostra vita, ma un’interruzione. Tutte le estati erano uguali,
mentre ogni
(riga 20) inverno portava qualcosa di nuovo.
Tu pensavi esattamente il contrario. Arrivavi il primo luglio,
ogni anno, mai
un giorno prima né più tardi del primo pomeriggio, e sembrava
che per te fosse
finalmente finita la lunga pausa della stagione invernale: era
arrivata l’estate, e
bisognava approfittarne subito perché era il momento di vivere.
Durava poco,
(riga 25) ma tu sapevi consumare le ore a una a una, proprio come
chi le ha attese a lungo.
Appena arrivato, percorrevi di corsa il lungomare, i due isolati
che ci
separavano, intanto che i tuoi genitori scaricavano i bagagli,
e mi trovavi sul
balcone che guardavo l’ultimo angolo possibile da dove saresti
apparso, e poi
scendevo giù di corsa. Questo, quando eravamo ancora bambini.
Mi accorsi che
(riga 30) avevamo smesso di esserlo, quando quell’anno il pomeriggio
del primo luglio
passò invano, ero inquieto, continuavo ad andare dalla mia stanza
al balcone,
ma quell’angolo in fondo alla strada era deserto. Non era mai
successo. Era
quasi sera ormai, e allora decisi di andare verso casa tua. Camminavo
con fretta,
avevo voglia di correre, ma non correvo perché intanto avevo paura,
una paura
(riga 35) terribile che tu non venissi quell’anno, non lo avevo
mai considerato possibile e
durante quel tragitto lo pensai per la prima volta, e cosa avrei
fatto lì da solo, per
due mesi interminabili.
Quando arrivai, capii.
Aiutavi tuo padre a portare su in casa le valigie più grandi,
e le tante altre
(riga 40) cose che riempivano l’auto. Mi salutasti con un sorriso,
ma avevi gli occhi
gonfi, eri affaticato e insofferente, con ogni probabilità avevi
litigato a lungo
per non fare quel lavoro, ma avevi dovuto cedere alla severità
di tuo padre.
Avevi pianto perché ti stavano levando delle ore preziose ai due
mesi di vita
che ti spettavano da sempre.
(riga 45) Chiesi a tuo padre se potevo dare una mano, e c’incontrammo
per le scale: tu
scendevi saltando i gradini, con la testa bassa come ogni volta
che eri
arrabbiato, io salivo trascinandomi dietro il peso di un tavolino
pieghevole. Ci
avevano incastrati, l’impunità di quando eravamo bambini era finita
all’improvviso.
(riga 50) Quando ci si incontra una volta all’anno, tutto sembra
essere cambiato
all’improvviso. Invece durante l’inverno ogni giorno un piccolo
pezzo di pelle
si trasforma. Impercettibile. E rivedendosi l’estate successiva,
la metamorfosi è
ormai avvenuta del tutto.
Non so se siamo stati amici. Ora di sicuro non lo siamo più. Ogni
tanto ci
( riga 55) incontriamo sul lungomare e se siamo in compagnia di
qualcuno, ci mettiamo a
parlare del passato, sempre del passato. Sembra che non riusciamo
a fare altro –
e ci scaldiamo, e raccontiamo gli episodi migliori dei giorni
migliori, ci
guardano divertiti, e ci chiedono come è possibile che non ci
vediamo più. E noi
rispondiamo che è vero, che una volta o l’altra dobbiamo ricominciare
a stare
(riga 60) insieme. Ce lo chiedono gli altri, noi no, abbiamo smesso
di farlo pian piano,
anzi no, abbiamo smesso di farlo all’improvviso, un’estate – come
se fosse
l’unica cosa da farsi, e quasi una liberazione. Non so se siamo
stati amici, perché
abbiamo passato tutti i nostri giorni insieme a competere, a litigare,
a prenderci
in giro.
(riga 65) Se ho un ricordo più netto degli altri, in quelle estati,
era la fatica di arrivare
alla fine di ogni giornata senza litigare o soffrire per un torto,
o portare a termine
un qualsiasi gioco. Avevo voglia di dire a tutti che essere amico
di un altro era
una cosa estremamente faticosa, era un impegno continuo – a un
certo punto
avrei quasi consigliato di non diventarlo.
(Tratto e adattato da: Francesco Piccolo, Storie
di primogeniti e figli unici, Feltrinelli, Milano, 1998) |
Il testo
che hai letto è
|